Vivere la pandemia di coronavirus da reduce di quella dell'Aids

Pigi Mazzoli a Milano è in quarantena da prima degli altri: è sieropositivo dal 1987. Ci ha raccontato cosa è cambiato (e cosa no) dai tempi dell'altra grande epidemia del secolo: non c'erano gli inni ai balconi, ma c'erano già le fake news
ISLAMABAD PAKISTAN  APRIL 18  A medical technician handles HIV positive samples during testing at the Pakistan Institute...
ISLAMABAD, PAKISTAN - APRIL 18: A medical technician handles HIV positive samples during testing at the Pakistan Institute of Medical Sciences, (PIMS), on April 18, 2006 in Islamabad, Pakistan. UNAIDS says the epidemic is exploding nationwide, where HIV testing in the general populace is rare, making effective treatment for most victims almost impossible. While the Pakistani government officially acknowledges less than 4,000 cases nationwide, the UN says that figure could be well over 100,000. December 1 is World AIDS Day, and 2006 was the 25th anniversary of the first diagnosis of the deadly disease. (Photo by John Moore/Getty Images)John Moore

La quarantena di Pigi Mazzoli a Milano è iniziata un po’ prima di quella degli altri. Sessantadue anni, milanese, sieropositivo dal 1987 e oggi malato oncologico, Pigi ha ricevuto una telefonata dall’ospedale a fine febbraio: “È un cosa seria, nelle tue condizioni non puoi uscire”. E lui non l’ha più fatto. Così come il suo compagno Franco Dal Molin, per non infettarlo. La spesa arriva a domicilio (con un po’ di ritardo), alcune commissioni le fanno gli amici.

Si può raccontare una epidemia per analogia e per differenza rispetto a un’altra? Cosa può dirci di quello che sta succedendo oggi un sopravvissuto a un’altra pandemia, quella dell’Hiv, che dagli anni '80 ad oggi ha fatto più di 40 milioni di morti in tutto il mondo? “Solo la paura di morire è uguale a quella di ieri, tutto il resto è diverso” mi racconta via Skype dalla sua casa in piazza Cinque Giornate, un piano alto da dove posta sui social network foto di vie deserte. Non c’erano bandiere tricolori ai balconi alla metà degli anni '80, quando le persone iniziarono a morire anche in Italia per l’Aids. Non c’erano applausi per le vittime o per gli operatori sanitari. Non c’erano blocchi né quarantene, mascherine e guanti, perché non è così che l’Hiv si diffonde. La difficoltà con cui il virus dell’Hiv si diffonde è stata una fortuna che ha impedito la decimazione della popolazione mondiale. Ma anche la dannazione di chi, infettandosi attraverso rapporti sessuali non protetti o scambio di siringhe, ha subito, insieme alla malattia, lo stigma sociale.

Solo gli inizi furono uguali” – mi racconta Pigi – “quando dagli Stati Uniti arrivò la notizia di una malattia incurabile che non si sapeva cosa fosse, come si trasmettesse. Allora veramente tutti avevano paura di poter essere infettati. Ma durò poco: quando fu individuato l’agente patogeno, quando si iniziò a sapere che colpiva soprattutto i gay e i tossicodipendenti, allora diventò, nell’opinione pubblica, un problema solo di alcuni”.

L’esatta sequenza di quegli anni sbiadisce un po’ nella mente di Pigi: “Non ricordo esattamente quando feci l’esame: poteva essere il 1984, forse il 1985.Certo erano i primi anni in cui gli esami erano disponibili nel nostro paese. Quando ai dottori dissi che non era possibile che avessi l’Hiv perché da almeno tre anni avevo rapporti solo con il preservativo, mi risposero che allora l’avevo preso prima e che probabilmente mi sarebbero rimasti al massimo altri due anni di vita, perché non si sopravviveva per più di cinque”.

Con la paura correvano, come oggi ma senza i social network, le fake news: “Alcuni omosessuali benestanti avevano in casa una pianta allora considerata molto bella, esotica e costosa: il tronchetto della felicità. Si diffuse la diceria che un ragnetto, un parassita che si annidava nel tronco della pianta, potesse uscire la notte e che la sua puntura potesse infettare il proprietario. Mi ricordo decine di queste piante abbandonate per strada, accanto ai cassonetti della spazzatura”. Altre notizie false avevano conseguenze tragiche. Se oggi il ministero della Sanità deve smentire sui social l’utilità dei gargarismi con la candeggina, “non pochi allora morivano perché la candeggina la bevevano, disperando di non poter guarire in altro modo”.

Si moriva soli, come oggi, ma per motivi diversi: “Molti di noi gay non avevano famiglia, altri sarebbe stato meglio non l’avessero. Perlopiù le persone si allontanavano da noi. Un nostro amico aveva da anni una donna delle pulizie che un giorno gli disse: ‘So che persona è, le vedo le foto che ha in casa. Io non voglio ammalarmi’. E non andò più in casa sua. Lo stigma dominava la nostra vita, ci si incolpava anche tra omosessuali. C’era chi puntava il dito contro chi aveva rapporti anali, convinti che avere solo rapporti orali li preservasse, e non era vero”.

Ma perlopiù era considerata una malattia degli altri, anche se sappiamo, adesso, che può colpire tutti. “Oggi c’è questa vignetta di Vauro, molto contestata, in cui il protagonista dice ‘Ridateci l’Aids’. Molti l’hanno criticata, io invece ci vedo un senso: chi pronuncia questa frase è una persona non sieropositiva che anche oggi vorrebbe un’epidemia che non lo tocca direttamente”. Il governo italiano, allora, se ne fregava. Carlo Donat Cattin, ministro della Salute dal 1986 al 1989, dichiarava che “l’Aids ce l’ha chi se la va a cercare” e solo nel 1988, in ritardo di tre anni rispetto agli altri paesi europei, la Sanità emise una direttiva per il controllo delle sacche per la trasfusione. Anni dopo, nel 1993, Cattin ricevette la medaglia d’oro alla memoria come “benemerito della Sanità pubblica”.

Si moriva in modo orribile. Alcuni ciechi, altri fuori di testa per via delle micosi al cervello che allora non si riusciva a curare. Per evitare tutto questo alcuni si procuravano delle polmoniti, uscendo in maglietta d’inverno, con i capelli bagnati, perché era il modo meno peggiore per morire. Leggevamo i necrologi, si diceva ‘morto per polmonite’. Noi sapevamo che era Hiv. Dopo, solo dopo, è arrivato un senso di identità, una voglia di reagire. Ci aiutavamo tra di noi, nasceva una solidarietà fortissima. Ma non so quante persone ho visto morire, non voglio dire i nomi per paura di dimenticarmene qualcuno. Una decina, tra i miei amici più stretti”.

La speranza per un vaccino, vana, si protrasse per anni. Arrivarono però gli antiretrovirali, le sperimentazioni mediche. Una di queste riguardò anche Pigi. Entrare in una sperimentazione era l’unica speranza di sopravvivere, ma molti, proprio perché si trattava di sperimentazioni, assumevano solo placebo, non il medicinale di nuova ideazione. Altri ancora, assumevano dosi totalmente sballate. Pigi era uno di quelli. “Era il 1987, ero debolissimo, sapevo di essere sul punto di morire. Presi un aereo per Londra, volevo morire lontano dai miei genitori, per non farli soffrire”. Ma non morì. Era a Londra quando ricevette la telefonata del suo medico di allora che l’avvisava che la sua condizione era dovuta probabilmente a una intossicazione al fegato causata dai medicinali. Tornò in Italia, iniziò altre cure. Piano piano le cose migliorarono.

Oggi, per Pigi come per migliaia di italiani, l’Hiv è una condizione con cui si può convivere, anche se nel suo caso si somma alle cure oncologiche. “Questa quarantena’ – dice – “mi pesa forse meno che ad altri. Già prima non potevo frequentare i posti affollati, prendere i mezzi pubblici. Una normale influenza a me lascia a letto per un mese”.

La prima cosa che farà quando si potrà tornare a uscire di casa, dice, è andare in campagna, dove ha una casa. “Mettiamo le zanzariere, un condizionatore, forse ci sposteremo a vivere lì”. Non è tra quelli che si illude che questo coronavirus sarà una cosa che passerà veloce, senza cambiare le nostre vite. “C’è un’altra cosa uguale ad allora, adesso che mi ci fai pensare. Ho letto di una infermiera che, saputo di essersi infettata di Covid-19, si è suicidata. Così leggo sul giornale e penso che nessuno, in realtà, sa veramente perché una persona si uccide. Diciamo che, se lo scrive il giornale, è una ragione plausibile. Allora, un po’ allo stesso modo, ci furono persone che si ammazzavano per lo stesso motivo, perché erano state attaccate dal virus e spesso non volevano dirlo alla moglie, ai figli. Ecco, se c’è una cosa che ho imparato è che il virus non può essere tutto, non si può prendere tutta la nostra vita.

Chiude così la nostra conversazione, Pigi Mazzoli: “Avere l’Hiv è una cosa che ho accettato, ma accettare non è nemmeno la parola giusta. Diciamo che ho imparato a fare le cose che posso fare comunque, a vivere nonostante questo. Ecco, penso che oggi sia un po’ la stessa cosa”.