La quarantena senza casa

Eccezione e continuità tra i senza dimora di Torino.

Cosimo Cavallo, “L’uomo che non c’era”

L’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni è stata interpretata in diversi casi a partire dalla nozione di “stato di eccezione” del filosofo Giorgio Agamben. Altri hanno invece richiamato il concetto di “condizione liminale”: un momento di sospensione della normalità e del quotidiano. Dalla mia quarantena, sto cercando di osservare e riflettere su come questa condizione – liminale o di eccezione – si stia manifestando all’interno dei servizi per persone senza dimora di Torino, di cui mi sono interessata negli ultimi anni. Rispetto al fenomeno dell’homelessness, Torino è uno scenario interessante perché più “virtuoso” di altri, perché fin dagli anni ’80 riconosce la titolarità pubblica di tale questione sociale e, nel tempo, ha costruito una rete di servizi pubblici. Questo esercizio di analisi mi ha condotta a risultati che non mi aspettavo: nei servizi per persone senza dimora a Torino ho rintracciato in misura maggiore elementi di continuità piuttosto che di rottura rispetto alla “normalità” del funzionamento della vita quotidiana. Alcune caratteristiche di questi servizi sembrano essere semplicemente portate all’eccesso dalla risposta “eccezionale” alla pandemia e anche gli elementi di rottura hanno una natura ambivalente.

La prima linea di continuità consiste nella riconfermata marginalità, quando non invisibilità, delle persone senza dimora. Esse rimangono periferiche nel discorso pubblico sulla pandemia, fatta eccezione per alcuni casi, come il reportage di Giuseppe Rizzo e Stefania Mascetti pubblicato da Internazionale o la puntata dedicata alle povertà del programma Tutta la città ne parla, trasmessa da Radio 3. L’opinione pubblica si accorge di queste persone solo quando la loro condizione entra in collisione con le norme di sicurezza imposte: in particolare, nel caso delle multe che, paradossalmente, alcuni agenti delle forze dell’ordine stanno assegnando a persone senza dimora poiché circolano nello spazio pubblico contravvenendo alle disposizioni nazionali, ben sintetizzate dall’hashtag #iorestoacasa. Chi è senza dimora rimane marginale anche nei decreti promulgati in questi giorni per rispondere alla situazione di disagio: non fanno parte del gruppo di cittadini che ha un lavoro regolare, dipendente o stagionale, né tantomeno di quelli che devono pagare bollette, affitto o mutuo. Gli stessi servizi sociali che si occupano di grave marginalità adulta non sono nominati nei decreti nazionali: in campo istituzionale, le risorse sono rivolte alla sanità pubblica, all’istruzione e alla cultura. La responsabilità di gestire l’emergenza in quest’ambito è ricondotta agli enti locali e alle risposte che essi saranno capaci di implementare in collaborazione con il volontariato.

Le persone senza dimora, come altri gruppi sociali, subiscono le “conseguenze indirette” della pandemia, non legate direttamente alla perdita del lavoro. Tra queste possiamo annoverare la compromissione, dovuta alla quarantena dell’intera città, degli equilibri volti alla sopravvivenza costruiti nel tempo da molte persone senza dimora. Questi equilibri fanno riferimento – in aggiunta o in alternativa ai servizi formali – a una rete “informale”, basata sull’utilizzo “creativo” di spazi destinati ad altri fini quali le biblioteche, su rapporti personali e locali di sostegno, su escamotage ispirati all’arte di arrangiarsi. Quest’insieme di “tattiche di sopravvivenza”, si sgretola nello scenario distopico costituito in questi giorni dalle città italiane. Per le persone senza dimora diventa un problema trovare un posto in cui poter usufruire del bagno, sparisce la rete di sostegno personale che offre un pasto caldo, l’occasione di fare una doccia o una lavatrice, vengono meno le possibilità di accesso, seppur minimo, al denaro, costituite dall’elemosina, dal commercio nei mercatini dell’usato cittadino o da saltuari lavori irregolari, come le pulizie, l’assistenza agli anziani e il dog-sitting. Non sono unicamente le persone “senza dimora” a essere penalizzate in questi termini: esiste un ampio numero di cittadini alloggiati in casa – che spesso hanno già frequentato i servizi di accoglienza – che sopravvivono grazie a queste reti fragili e informali di aiuto. Anche alcuni servizi sono colpiti, di riflesso, dalla quarantena della città: chiudono i ristoranti, le panetterie e le mense aziendali o scolastiche che donano il cibo invenduto o rimanente alla rete di servizi di assistenza e si riduce la presenza delle associazioni di volontariato, che solitamente assumono un ruolo fondamentale nel rispondere a bisogni essenziali, come la possibilità di cenare in dormitorio.

La situazione emergenziale del Coronavirus sta evidenziando quanto queste reti e tattiche informali, adottate sia dalle singole persone – senza dimora o con dimora precaria – sia da alcuni servizi, si basino su un equilibrio estremamente fragile. Fortunatamente, rispetto al contrasto all’homelessness¸ la città di Torino dispone di una rete di servizi pubblici consolidata e gode di una pluriennale collaborazione tra ente pubblico, terzo settore e volontariato, caratteristiche che in questo momento stanno rivelando la loro importanza. A queste peculiarità locali, si aggiungono le misure nazionali strutturali di contrasto alla povertà estrema, come il Reddito di Cittadinanza, che attualmente sta evitando la caduta in condizioni di bisogno estremo di un un ampio numero di persone.

Foto © fio.PSD

Le strutture della rete esistente a Torino si stanno progressivamente attrezzando per rispondere alle norme di sicurezza dettate a livello nazionale. Come già anticipato, i decreti e le misure economiche non hanno riguardato questo settore di servizi, motivo per cui l’ente locale sta decidendo in autonomia come gestire l’emergenza. Anche questa scelta è in continuità con quanto accadeva prima del Coronavirus: non esistono disposizioni nazionali di tutela per le persone senza dimora, ma solo linee di indirizzo, sottoscritte nel 2015, che suggeriscono alle amministrazioni locali le misure da adottare. Oggi, rispettare le regole di sicurezza per evitare il contagio all’interno dei servizi di accoglienza esistenti è un compito quasi impossibile. Come si possono evitare assembramenti in strutture in cui dormono più di quaranta persone in spazi ridotti? Come evitare che le persone circolino per la città, quando i dormitori sono chiusi durante la giornata e le mense caritatevoli che continuano a funzionare sono localizzate in quartieri distanti? L’emergenza attuale, tuttavia, non costituisce un’eccezione: essa non fa altro che esasperare ciò che caratterizza i servizi per persone senza dimora nella loro “normalità”, ovvero il fatto che non siano adeguati a garantire la sicurezza e il benessere delle persone a cui sono rivolti. La condivisione “forzata” della quotidianità con un alto numero di persone sconosciute, la pessima qualità estetica e architettonica delle strutture – alcune delle quali sono prefabbricati – la mancanza di uno spazio all’aperto che permetta di diluire le tensioni innescate dalla convivenza, l’assenza di un luogo sicuro in orario diurno in cui recarsi sono tutte caratteristiche che minano continuamente la salute delle persone in carico ai servizi. Come sta accadendo per le carceri italiane, il Coronavirus non fa che rendere evidente la già nota inadeguatezza dei servizi di contrasto all’homelessness.

A fianco della categoria marginale degli homeless, si colloca un altro gruppo sociale trascurato in questi giorni di allerta pubblica: gli operatori sociali. Educatori, OSS e operatori stanno continuando a lavorare nei servizi, a volte con difficoltà di accesso a dispositivi di protezione o alla possibilità di sottoporsi al tampone per verificare la loro positività al virus. Faticano a mantenere il funzionamento di strutture e servizi che difficilmente rispondono alle nuove esigenze di sicurezza e si sentono ostacolati nell’esercizio di ciò che spesso riconoscono come centro della loro professione: la relazione. Infine, pur essendo a loro volta in una situazione di incertezza, anche economica, devono rispondere alle ansie crescenti degli utenti dei servizi in cui lavorano. L’opinione pubblica si concentra sulla condizione delle professioni sanitarie o degli operai, mentre dimentica sia le persone senza dimora sia gli operatori sociali che si occupano di queste. Emerge così il carattere pubblico e socialmente rilevante dello sfruttamento delle professioni del non-profit. Il fine sociale del loro lavoro e il fatto che sia la collettività (lo Stato) ad appropriarsene legittima, e in parte occulta, il loro sfruttamento. La pandemia evidenzia come, a loro volta, essi rappresentino una categoria di working poor, regolati da condizioni retributive e contrattuali svantaggiose, che in questo momento si concretizzano in un’esposizione al rischio di contagio che non è divenuta oggetto di alcun dibattito pubblico.

Il sistema di accoglienza torinese, tuttavia, non è imploso allo scatenarsi dell’emergenza. Al contrario, in tempi estremamente rapidi, l’ente pubblico, le cooperative sociali che erogano i servizi per conto del Comune e la rete del volontariato si sono attivati, in sinergia, per rispondere alla situazione emergenziale. Gli spazi esistenti sono stati modificati per garantire un maggior distanziamento tra le persone e sono state cercate nuove strutture per includere chi rimaneva in strada. Risorse che erano destinate ad attivare altri interventi, interrotti per rispettare le norme di sicurezza, sono state reindirizzate, con il fine di mantenere aperti i dormitori anche durante parte della giornata. Alcune norme interne al sistema di servizi sono state modificate, per esempio garantendo a chi è in dormitorio il posto letto ben oltre le trenta notti previste da regolamento e la rete del volontariato si sta riorganizzando in funzione dei bisogni emergenti. Certo la situazione non è risolta: il sistema non riesce a dare risposta a tutta la popolazione homeless, e le soluzioni offerte presentano significative criticità. Nel complesso, tuttavia, il sistema si sta attrezzando con inattesa efficienza, creatività e prontezza nel rispondere all’emergenza.

Porta Palazzo. Foto dell’autrice

Questa efficacia è sintomo della sensibilità del mondo sociale rispetto alle esigenze dei gruppi più vulnerabili. È possibile però interpretarla anche come espressione di una caratteristica più profonda del mondo dei servizi di contrasto all’homelessness: ovvero, la sua origine orientata a rispondere a un’emergenza. La questione sociale dell’homelessness, piuttosto che essere pensata come una “violenza strutturale”, le cui radici sono ampiamente riconducibili alle politiche sulla casa, sul lavoro e sull’accesso al reddito, è più spesso interpretata come una “crisi”, un episodio catastrofico nella biografia individuale, un’emergenza appunto. Nel “laboratorio” torinese, quanto questa visione sia iscritta all’interno delle stesse politiche è stato evidente recentemente in occasione dell’implementazione dei fondi europei FEAD, che distribuiscono beni materiali agli indigenti. Le norme che regolano l’erogazione di queste risorse sono funzionali a una distribuzione di beni di prima necessità standardizzati, pensati come risposta immediata a una situazione emergenziale. Il sistema torinese ha scoperto, tuttavia, quanto i meccanismi regolatori del FEAD si trasformino in seri ostacoli a fronte del tentativo di inserire queste misure in progettualità personalizzate e di più ampio respiro, che rifiutino un trattamento emergenziale dell’homelessness. La pronta reazione al Covid-19 può dunque essere frutto di questa contraddizione che vede il sistema di contrasto all’homelessness nascere da una lettura emergenziale di un fenomeno che nel lavoro quotidiano con le persone rivela, però, la sua natura strutturale. Proprio nell’emergenza, dunque, questo sistema appare finalmente efficace e legittimo. Prima della diffusione della pandemia, le sue contraddizioni erano evidenti e ne minavano la legittimità: l’incapacità di garantire una risposta all’intera popolazione bisognosa, la scarsità di risposte strutturali alle difficoltà di accesso a casa e lavoro, la macchinosità dei percorsi nei servizi che limitano l’autodeterminazione delle persone, la scarsa qualità degli spazi dell’accoglienza. Lo “stato di eccezione”, invece, modifica la lente attraverso cui vengono letti i servizi, che diventano all’improvviso la giusta risposta a esigenze che sono reinterpretate come emergenziali, poiché è l’intera società a trovarsi in condizione “eccezionale”. Non è la logica dei servizi che si modifica al tempo della pandemia, è piuttosto quella dell’intera società che, “in stato di eccezione”, diventa una cornice più adatta all’origine emergenziale di questi servizi.

Il momento che stiamo attraversando è drammatico e ricco di ambivalenze. I suoi effetti si protrarranno più del virus che lo ha innescato. La pandemia potrebbe, tuttavia, anche offrire una modalità per rileggere la nostra “normalità” – le istituzioni, le norme, i servizi che regolano la società – sotto una lente diversa. Come un filtro fotografico, il Coronavirus illumina elementi inediti, offre la possibilità di osservare la nostra comunità da una prospettiva diversa da quella abituale, secondo una modalità che ricorda lo “straniamento” di chi fa etnografia in un campo di ricerca sconosciuto. L’augurio è che, analogamente a quanto avviene nella ricerca etnografica, sapremo fare di questo straniamento un’occasione di riflessione e ripensamento, tra le altre cose, della questione della grave emarginazione adulta, per superare finalmente la prospettiva emergenziale.

 

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